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interviews

Neobarocco, semiotica e cultura popolare
L’intervista con Omar Calabrese

By Krešimir Purgar

• Prima di tutto, vorrei parlare con lei a proposito del suo libro L’età neobarocca, scritto ormai venti anni fa. Ci può dare un resoconto di questi due decenni, le pare che siamo ancora "neobarocchi", lo siamo di più o di meno? Mi riferisco soprattutto ai numerosissimi esempi a cui ha accennato nel libro e credo che oggi ce ne sarebbero ancora di più.

Omar Calabrese— Tanto per cominciare, bisogna dire che nell’ambito delle società contemporanee non si possono mai definire modi, gusti o tipologie di testi o comportamenti. Semplicemente, io avevo avvertito la neccessità di segnalare che si era fatto strada un gusto neobarocco che in precedenza era stato latente anche perché c’era un pregiudizio ideologico contro il barocco storico, quello del Seicento e il primo Settecento. Quindi, una volta introdotta la forma del gusto che ho chiamato neobarocco ho cercato di capire quale sia stata la sua espansione e il suo eventuale successo e se ci siano state delle tendenze diverse opposte, oppure se il gusto si è trasformato e, rimanendo neobarocco, ha preso caratteri ulteriori diversi. Sostanzialmente, vorrei affermare che il neobarocco continua ad esistere. Tra l’altro si assiste al fenomeno che molti artisti si stanno rifacendo al termine, alla parola "neobarocco". Quest’anno a Salamanca c’è stata una grande mostra, L’inferno del bello, ma anche all’artefiera di Verona sono state allestite due mostre, una pubblica e una privata, dedicate agli artisti neobarocchi. In Inghilterra, negli Stati Uniti, anche in Australia sono stati usciti libri sul neobarocco. Accenno al "Baroqe and roll", un libro molto parallelo a quello che ho scritto io, uscito sette anni fa e la scena in Austalia è molto forte con Angela Ndalianis e altri. C’è stato, dunque, tutto un evolversi della consapevolezza e dell’esistenza di questo genere di gusto e di stile.

• Ma, lei è stato il primo ad aver verificato l’esistenza di questo nuovo gusto di pensiero nelle società contemporanee. Si sente personalmente come un capostipite di questa corrente di pensiero?

— Non so se sono stato il primo, non saprei dirlo. Sicuramente se ne parlava prima di me, per esempio illustri studiosi più anziani di me, come Gillo Dorfles, che parlava del gusto neobarocco in architettura. In un altro caso se ne parlava da un punto di vista più sociologico con l’enfasi sugli attegiamenti generali, anziché sulle singole opere d’arte. Tanto è vero che nei primi anni ottanta io stesso avevo partecipato ai colloqui che riguardavano la riflessione filosofica sull’attegiamento cortigiano, in particolare su Baldassar Gracian e il suo concetto di "agudeza" ed erano usciti moltissimi libri a questo proposito, però era una riflessione piuttosto filosofica staccata dalle espressioni contemporanee. Credo di averlo fatto in un certo senso per primo, collegato al neobarocco nel mondo delle arti, ma da un altro lato ad un clima culturale che coinvolge tutti i settori della cultura, inclusa la scienza e incluso anche l’universo di massa, cioè la cultura popolare, più che un filone propriamente artistico. Poi, io sono partito dalla convinzione che il gusto neobarocco derivi dal fatto che la nostra è una cultura di massa e sopratutto che questa cultura di massa, a causa della televisione, si è orientata verso le forme di sorpresa e originalità a tutti i costi che derivano dal prevalere in tutto il mondo di una cultura dello spettacolo, rispetto al settore di informazione o quello pedagogico che sono più tradizionali punti forti delle televisioni pubbliche. Si sono affermate invece le televisioni private che hanno insistito su una cultura popolare fatta sostanzialmente dallo spettacolo.

Insomma, tutti questi libri usciti negli ultimi tempi e tutte le indicazioni sociali e artistiche a cui stiamo assistendo sono senz’altro una conferma dello spirito neobarocco ormai stabilizzato, anche come fatto teorico a livelli universitari. Quando il mio libro uscì nel 87, io partivo dalla constatazione che ci fosse un desiderio di diversità, originalità e gioco all’interno dei fenomeni neobarocchi. Oggi, forse, si potrebbe dire che questo sentimento della sorpresa, virtuosismo e originalità a tutti i costi è diventato molto stereotipato e  dunque prevale, a volte, soltanto nella ricerca delle forme e non toccando il significato dei contenuti. Questo, tra l’altro, cosituirebbe un parallelo con il barocco storico: il barocco storico rappresenta un gusto cominciato a verificarsi in una certa epoca ed è consistito dal portare al limite massimo tutte le teorie e le pratiche artistiche inaugurate dal classicismo del periodo rinascimentale. Poi, esso finisce con sposarsi con sistemi politici fortemente reazionari e conservatori, ad esempio con nascita dei stati assoluti in Europa, a allora diventa una maniera per mostrare capacità, acutezza, prudenza, virtuosismo ma per nascondere accuratamente i contenuti, perché altrimenti si rischia la vita e si rischia la galera. E’ un po’ l’analisi dei motivi storici dell’età moderna che vede nel periodo cosiddetto barocco l’esercizio dei poteri assoluti e le forme del gusto come reazione di difesa. E’ un po’ come nell’Unione Sovietica quando la gente leggeva la Pravda per coglierci soltanto piccoli dettagli, le cose diverse da ciò che voleva il regime oppure pronuciavano i discorsi in cui soltanto dai dettagli marginali si poteva capire che c’era un orientamento diverso. E’ importante capire che il sistema del gusto sia infatti la forma di difesa. Ho l’impressione che oggi stiamo attraversando un momento di questo genere e quindi la società ha assorbito l’idea del barocco, il principio del barocco, però lo stato, il clima generale della società fa sì che esso si orienti verso un grande formalismo per coprire l’impossibilità di mostrare certi contenuti.

• A questo punto vorrei avere la sua opinione su una questione storico-teorica. Dirrei che è facile affermare l’esistenza dei caratteri diversi del barocco seicentesco a differenza di quello settecentesco. Mentre, ad esempio, un Caravaggio si occupa del "soggetto debole" dei suoi personaggi e della loro posizione instabile di fronte al mondo circostante e mentre Vermeer e Velasquez sono del tutto occupati dalle modalità di rappresentazione stessa anzichè della pittura vera e propria, dall’altro lato Rubens, Pietro da Cortona e Tiepolo sono orgogliosi, stravaganti, estroversi... I loro affreschi sono popolati da moltissimi personaggi in una maniera che ha assolutamente superato e trasceso il periodo di formazione di un barocco "di transizione" che sarebbe stato quello del seicento, rispetto a quello maturo e, insomma, più propriamente barocco - il settecento. E’ possibile ancora oggi fare una distinzione del genere? Non sarebbe quel neobarocco di venti anni fa, di cui si trattava nel suo libro L’età neobarocca, "di transizione" e quello di oggi uno con caratteristiche stilistiche molto più precise e conseguentemente più chiaramente barocco?

— Può darsi benissimo che sia così; tuttavia, rispetto al parallelismo storico che è sempre particolarmente pericoloso (perché altrimenti entriamo in una spirale al Giammbattista Vico dove ci aspettiamo sempre ricorsi, ricorsi e ricorsi) e pericolosamente schematico, io dirrei che ci sono semplicemente due tipi, quello di un barocco allo stato nascendi e quello consolidato e ambedue possono essere contemporanei e coesistere. Si tratta semplicemente di modalità scelte dagli esecutori, più moderate o più radicali, perché anche nel barocco storico, come pure nell’arte contemporanea, c’è gente di minore audacia, come possono essere Vermeer e Rembrandt e gente di altissima audacia, ad esempio Bernini. E bisogna ricordarsi che Bernini produce oggetti di corte, per matrimoni, feste e così via. Se noi possedessimo la effettiva realizzazione degli originali apparati per le feste di Leonardo da Vinci, probabilmente interpreteremmo neobarocco come già precedente. Arcimboldi è del cinquecento, e sarebbe già stato francamente chiamato un artista neobarocco. Ci sono elementi che non dobbiamo mettere per forza in successione e in sincronia storica, ma possono essere contemporanei e sono semplicemente la spinta verso certe innovazioni radicali oppure moderate. Per esempio, Rubens, Vermeer, Caravaggio ed altri hanno un attegiamento che tiene molto conto degli schemi di pittura classica, infatti si può parlare di un classicismo o neoclassicismo barocco; in altri casi, invece, si cerca la rottura dai classici. Tutte le geometrie negli edifici di Borromini sono un esempio palese del tentativo della rottura dai sistemi costruttivi precedenti. Se passiamo alle scienze, vediamo che esistono delle teorie particolarmente audaci: il calcolo infinitesimale di Leibniz, questa ricerca di infinitamente piccolo, può essere considerato come aderente allo spirito barocco perché sta cercando qualcosa che si pone totalmente al di là dei limiti delle conoscenze precedute. Kepplero inventa le orbite a elissi... Mi sembra più interessante riconoscere delle tipologie, delle estremizzazioni e delle maggiori moderazioni. Poi, occorre sempre analizzare le opere e i fenomeni di una scelta più orientata verso la forma a differenza di quella più orientata verso contenuti. Questo è pertinente all’evoluzione di uno stile; quando ci si sofferma soprattutto sulla forma, sul piano di espressione e basta, quando non si dicono cose nuove e originali rispetto al contenuto, eccoci di fronte ad un’evoluzione degenerativa, nella fase terminale di uno stile, come direbbe Henri Focillon.

• Che cosa sarebbe la degenerazione di uno stile oggi?

— Per la degenerazione si può dire la perdita dei parametri di controllo che hanno portato alla sua nascita. Questi parametri sono sempre di parallelo, appartenenti sia all’espressione che al contenuto. Quando ci si orienta verso una sola delle due direzioni lo stile è degenerato perché ha perso i parametri della sua nascita. Quando parliamo d’un film, magari di non grande bellezza formale ma che si costruisce attorno all’esasperazione d’intreccio con decine e decine di personaggi, complicazioni di trama, allora lì c’è stata un’evoluzione negativa perché siamo di fronte all ricerca di complicazione, ma non c’è nulla che contemporaneamente vi sia anche ricerca formale. La televisione, ad esempio, ci sta abituando a costruire varianti sempre più complicati ma delle stesse storielle; nei serial alla TV assistiamo chiaramente alla super-complicazione narrativa. E’ ormai diventata una follia seguire le vicende, amori e disamori dei personaggi: se uno ha perso tre puntate non capisce più dove si trova perché le complicazioni sono folli. C’è un fenomeno analogo sul grande schermo, un film molto neobarocco che è stato Matrix. Quando vediamo il sequel, allora il due verrebbe a richiedere i soldi del biglietto perché non vi accade assolutissimamente niente se non la ripetizione esasperata delle invenzioni del primo episodio. Con il terzo abbiamo quasi la stessa cosa, magari si cerca di arrivare a una qualche conclusione ma adoperando gli stessi trucchi cinematografici - insomma, tutto il film giocava attorno effetti speciali.

• Se diamo un occhiata agli attuali show televisivi, uno può avere l’impressione che un eccesso viene sempre superato da un altro, più originale e più morboso eccesso. Se ci ricordiamo, per esempio, dei talk-show di dieci, quindici anni fa - le prime Oprah, seguite poi da Jerry Springer e più recentemente da invarianti del Big Brother - pare che abbiamo perso un centro, un referente comune di normalità e di buon senso. Nel mondo dei media tutto si spinge sempre più avanti verso un perenne eccesso del quotidiano. Nel suo libro L’età neobarocca, invece, lei diceva che nel barocco storico il limite veniva per forza superato, ma mantenendo sempre in mente l’idea del centro, un punto di riferimento sociale che aiutava la gente a fare distinzione tra il normale e l’eccessivo. Nel neobarocco di oggi questa distinzione pare non ci sia più.

— Questa mi sembra un’osservazione abbastanza vera. Però, nel libro non è che sostenevo che ci fosse sempre l’attenzione per il centro, per il centro precedente. Referendomi alla teoria di semiosfera di Lothman, quando il sistema culturale preme verso i propri confini riformula un sistema, cerca un centro ma è un nuovo centro. L’Impero romano si estende verso limiti non ancora conosciuti e occupa i territori dei cosiddetti barbari spostando le capitali, di cui oggi abbiamo Milano, Costantinopoli, Ravenna. Per riorganizzare un sistema, che è venuto a costituirsi premendo sui limiti, occorre riformularlo e ripensare l’idea del centro. Oggi sembrerebbe di esistere una mancanza totale del centro per collocarsi soltanto ai margini dei sistemi. Questa è una buona riflessione, però occorrerebbe precisare che questo desiderio di stare sui margini è motivato da un’assenza di visione del sistema e i suoi contenuti. Si sta in margini quasi consapevolmente perché non c’è riformulazione del sistema. Quei parametri, di cui dicevo, a base dei quali nasce una forma del gusto, sono perduti. Abbiamo toccato il cuore del principio d’inflazione comunicativa.

• Lei ha detto che vedeva il suo libro come un’opera dell’estetica sociale...

— La definizione di estetica sociale l’ho presa da David Hume. Però, qui non si tratta di un’estetica che contenga in sé un impegno o meno. Volevo semplicemente dire che è un’estetica che non appartiene solo ai produttori, agli artisti, ma appartiene anche al pubblico, ai fruitori. In questo senso è sociale, perché riguarda la coppia di partecipanti nella comunicazione aventi per oggetto un oggetto estetico. Detto questo, tuttavia, certamente aderisco all’osservazione che stiamo ritornando, un pó come negli anni cinquanta, ad un momento in cui c’è una divaricazione tra arte come impegno e arte come gioco, che sono magari tendenze di tutta la storia dell’arte. Ho tuttavia l’impressione che siano posizioni di carattere ideologico o anti-ideologico e che non hanno molto a che vedere con il gusto, nel senso che noi possiamo assistere ad arte impegnatissima e che è allo stesso tempo neobarocca. L’artista cubana Minerva Cuevas fa grandi affreschi sui muri delle città contro le multinazionali e che sono chiaramente neobarocchi. Barbara Kruger, invece, con i suoi altrettanti messaggi antiglobalisti rimane artisticamente tradizionale, molto tradizionale, quasi provenendo dal realismo socialista degli anni cinquanta. Se non chiedesse che i suoi manifesti vengano distrutti immediatamente dopo le esposizioni, di barocco francamente non ci vedremmo quasi nulla. D’altra parte abbiamo manifestazioni di arte come gioco, quindi disimpegnata per definizione, l’arte per l’arte, in cui ci sono elementi di formidabile innovazione: mi viene in mente Panamarenko che utilizzava materiali di recycling creando oggetti stupefacenti a là Julles Verne oppure Chen Zhen che mescolava nelle sue installazioni elementi di culture diverse, suoni e forme tecnologicamente innovativi. Poi, c’è un tradizionalissimo Bottero che ciò nonostante chiameremmo neobarocco grazie alla sua ironia visualizzata tramite personaggi grassi, essi addirittura barocchi. Spingendo il discorso ad estremo, il minimalismo, nella sua ricerca di forme pure, può anche essere considerato neobarocco.

• Spostiamoci adesso su un altro binario. Lei ha detto che l’opera d’arte per sua natura contiene in sé l’istruzione per il proprio uso. Cosa facciamo con le opere d’arte che proprio neccessitano di spiegazioni fuori della loro forma e fuori del loro contenuto?

— Questo concetto non appartiene a me, ma allo storico d’arte francese che considero il mio maestro - Hubert Damisch. Lui si è sempre occupato di ciò che aveva chiamato l’oggetto teorico dell’arte, ovverosia qualunque opera non è solo accompagnata dalla propria critica, esterna all’opera, ma contiene degli elementi che ne costituiscono l’architettura e che non possono non partire da qualche teoria. Esempi clamorosi in questo senso possono essere i romanzi di Umberto Eco che partono sempre da qualche corso universitario. Il Nome della rosa parte da un corso su Aristotele e la sua poetica, Il pendolo di Foucault parte dal problema di semiosi ermetica esaminato in precedenza da Jacques Derrida. Anche il libro sulla Regina Moana parte dagli studi sulla memoria. Accanto ad Eco, simili esempi uno potrebbe trovarseli negli autori che si occupavano di teoria letteraria, come Borges e Calvino. Questo accade anche in autori meno consapevoli, perché è impossibile che ciò non avvenga: ognuno di noi sa molto più di quanto crede di sapere essendo imbevuto da intera cultura di una società. Anche un artista che non ha studiato la critica e teoria delle opere d’arte lo stesso li mette in pratica e segnala gli elementi costitutivi della sua propria poetica, anche quando non crede di farlo.

• Un periodo di tempo lei si è occupato di mostri. Mi pare che il mostro come figura di personificazione sia passato dalla posizione dell’eroe iconografico nell’età moderna fino alla metafora dei rapporti sociali nei giorni nostri. I veri mostri, quelli che ci danno dei brividi, non sono più King Kong e neanche Freddy Kruger, ma personaggi di carne e ossa come presidenti di stati e grandi corporazioni, TV stars e giocatori di calcio, non più deformi ma bellissimi e impeccabili.

— C’è un problema perché la ricerca dei mostri evidentemente aveva dei scopi per cui era fatta. La mia era fondata sull’innovazione figurativa. Una volta che si sia esaurita la novità della sorpresa figurativa, è chiaro che si deve andare da qualche altra parte. Ed ecco che ci siamo spostati verso il mostro psicologico. Se negli anni ottanta nasce Alien, negli anni novanta nasce già Hannibal the Cannibal che è un mostro ma rappresentato come un professore illustre, di bell’aspetto e di forte credibilità. Giusto ieri sera guardavo in anteprima una versione di Shakespeare, Il mercante di Venezia, dove Shakespeare si era inventato un mostro sociale che era Shylock che richiede, come corrispettivo per la mancata restituzione di un debito, un chilo di carne del debitore. Il ruolo di Shylock, il prototipo di malvagità, era interpretato da Al Pacino in una dimensione assolutamente umana in cui uno non poteva fare a meno e domandarsi se per caso non avesse alcune buone ragioni, per quanto era delineato pur con le stesse parole di Shakespeare, tratte integralmente dalla sua opera. L’interpretazione di Al Pacino era una dialettica di sentimenti, di azioni e reazioni in cui assolutamente non avevi l’immaginazione di quel prototipo del malvagio. Questo vuol dire che si va alla ricerca del mostro o per attenuarne i motivi per cui era mostro (a mostrare qualcuno come eccezionale) o per cercarne dei caratteri totalmente differenti, psicologici o addirittura sociali. Non a caso la vecchia stagione di mostri cinematografici degli anni ottanta è finita e diventa estremamente ripetitiva. In televisione guardavo un pastiche assolutamente inguardabile fra due grandi prototipi degli anni ottanta, fra Alien e Predator dove lo spettacolo mancava del tutto. Invece, a partire da Hannibal the Cannibal abbiamo assistito a comparizione dei maniaci di vario tipo, materia dell’assasinio, serial killer, ma anche fantasmi mischiati con il reale come nel Sesto senso con Bruce Willis dove non si capisce più chi è vivo e chi è morto. Consumata l’iconografia dei nuovi mostri di qualche decennio fa, si va comunque verso mostri sociali che hanno un’apparenza accettabile. La realtà con le sue trame narrative ha decisamente superato la fantasia. La data fondamentale era l’11 settembre e tragicamente era il momento più neobarocco che si potesse immaginare. E’ chiaro che la ricerca del mostro sociale funziona bene perché uno degli elementi fondamentali del neobarocco è quello passionale. Mentre il razionalismo classico, rinascimentale e poi neoclassicismo si fondano sul principio dell’equilibrio, il barocco storico e odierno si fonda sugli squilibri come pure i sentimenti. Il terrorismo, fondandosi sulla costruzione di squilibri, non può non creare sentimenti forti; la paura e il terrore sono intrinsicamente parte di questo perverso tipo di gusto.

Siena, gennaio 2006